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I 23 giorni della città di Alba

Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944.

L’incipit de I 23 giorni della città di Alba è famosissimo. E tutto il libro merita di esserlo altrettanto. Dalla prima all’ultima riga di ogni racconto, Fenoglio fa la descrizione più viva, più antiretorica e più potente della Resistenza che si possa mettere su carta. Parla della guerra civile come solo se ne dovrebbe parlare: come una guerra che che ha messo contro gente che si conosceva: gente dello stesso paese, parenti, colleghi, amici, vicini di casa, buoni, cattivi, ladri e vittime.

La lettura manichea, a contorni netti, come se le parti in lotta venissero da due pianeti diversi, nel racconto di Fenoglio non c’è. C’è invece nelle sue parole, secondo me le migliori mai scritte sul tema, la semplice osservazione che la Resistenza era fatta di tantissime vicende umane, tantissimi dettagli, tantissimi squilibri. Il partigiano di Fenoglio non è perfetto, ma questa imperfezione dei singoli attori rende l’impresa ancora più memorabile, mitica. e Fenoglio non trascura mai il fatto che la Repubblica stessa fosse fatta di uomini; dice sì che stanno dalla parte sbagliata, ma non li giudica a priori, ma cerca di capire perchè siano finiti lì, cerca di mostrare le loro motivazioni.

E’ una narrazione tossica, nel senso che proprio narrando nel dettaglio come le cose non fossero perfette, come non fosse tutto bianco e nero (si veda ad esempio il racconto sul partigiano condannato per rapina) Fenoglio riesce a creare un vero effetto epico della Resistenza, una battaglia vinta da uomini comuni, con le loro forze e le loro debolezze, contro altri uomini, anche loro comuni.

Lo stile di Fenoglio si piega come una corda a questo fine, con pagine spettacolari, tanto forti quanto grezze e brute.

In alcuni passaggi la forza della scrittura è tale da far chiudere lo stomaco.

Un consigliatissimo capolavoro.