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Il dilemma dell'onnivoro

Libri e cibo, intersezione di due mie passioni.

Comprai “Il dilemma dell’onnivoro” su Amazon la bellezza di quasi sei anni fa, nel dicembre del 2014. Era già allora un testo abbastanza famoso, e in questi anni è diventato ancora più importante.

L’idea centrale è discutere appunto il dilemma del titolo, ovvero:

L’onnivoro è benedetto dalla natura perché può mangiare una gran varietà di specie. Ma la sua maledizione si manifesta al momento di decidere quali di queste specie non gli facciano male, perché in quel frangente si ritrova praticamente solo di fronte al suo destino.

Dalla considerazione che il “non fare male” si è spostato nel tempo di piano, dal fisico allo spirituale all’etico, partono tre grosse analisi, ciascuna incentrata su un particolare modo di procurarsi il cibo, rappresentate da alcuni alimenti simbolo.

La prima analisi è incentrata sull’agricoltura moderna e sull’approccio industriale al cibo, sintetizzate dall’immagine, monolitica, della pannocchia di mais.

Girando tra fattorie e impianti di trasformazione, parlando con agricoltori, politici, attivisti, Pollan descrive nei dettagli quella che, nelle sue parole, è:

una fabbrica che trasforma materie prime (i fertilizzanti chimici) in prodotti lavorati (il mais).

Molto interessante, qui e nel resto del testo, è come Pollan approccia i diversi aspetti della questione, spesso contraddittori tra loro. Non c’è mai giudizio, definizione di superiorità di una visione rispetto all’altra, ma un chiaro ragionamento basato su fatti ed evidenze (la bibliografia del libro è sterminata). Un bell’esempio di racconto e ragionamento guidato dai dati.

Alcune perle, in questo settore, sono la storia del mais come pianta C4 e le conseguenze sulla composizione dei nostri capelli. Una di quelle cose che non sapevo ma che mi rivenderò certamente.

O la citazione di un italiano molto, ma molto importante (e purtroppo troppo poco conosciuto):

Come fa notare lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, gli alimenti freschi, locali e di stagione che oggi tanto apprezziamo sono stati per gran parte della nostra storia «una forma di schiavitù», perché ci lasciavano completamente in balia delle vicissitudini locali della natura.

Poi si passa al secondo tema. Quello della carne. E qui ci si avvicina al nucleo “etico” del testo, forse quello più noto, ma mi permetto, non quello più importante nell’economia generale del testo.

La disanima di come vengono allevati gli animali in maniera intensiva, verso l’allevamento molto più sostenibile e “umano” di realtà come Polyface è profonda e molto meno “a tesi” di quanto si possa pensare.

Anche qui, ammirevole la semplicità (che non è in contraddizione con la profondità) con cui l’autore riesce a descrivere il tema dell’allevamento e le scelte ad esso collegate:

«Alla fine l’allevamento non è che un business: il business di convertire l’energia solare gratuita in un prodotto alimentare che può a sua volta essere trasformato in energia calorica per l’organismo umano ad alto valore aggiunto»

La descrizione del modello di Polyface è poi un interessantissimo viaggio in un vero sistema completamente integrato, la realizzazione del famoso motto “Buono pulito e giusto” di Slow Food, ma con molta meno retorica e molto più senso pratico.

Qui appunto si inizia anche a discutere il tema del consumo di carne e della sua opportunità politica, sociale, etica. C’è un punto di discussione, anche qui, di ragionamento sui diversi approcci, messo in evidenza con una citazione:

Come scrisse un filosofo della politica ottocentesco: «Il maiale è quello che ha più da guadagnare dalla richiesta di pancetta. Se nel mondo tutti fossero ebrei, non ci sarebbe più neppure un maiale»

Da qui si rende evidente l’errore che a volte si può fare, ovvero considerare i temi alimentari come monadi, dove le cose possono essere bianche o nere, quando invece fanno tutti parte di un sistema integrato, dove certi equilibri possono essere sostenti anche da appoggi inattesi.

Si chiude con il tema della caccia e della raccolta, il mito dell’uomo primitivo che vive della benevolenza della natura. Qui, all’aumento dell’anedottica, si indebolisce un filo il ragionamento: di sicuro è apprezzabile il valore etico del gesto di raccogliere o cacciare il proprio cibo, per (ri)costruire un rapporto con esso. Viene però un filo troppo coperta, a mio avviso, l’insostenibilità (o in alcuni casi la vera e propria impossibilità pratica) di questa proposta. Questo tipo di scelta, quella di “procurarsi dalla natura” il proprio cibo, è una scelta che può essere esclusivamente simbolica, legata un po’ troppo a una visione primomondista e da “mito del buon selvaggio”.

Questo, e la citazione di Vandana Shiva, nota truffatrice travestita da attivista, sono gli unici punti deboli di un testo che invece è pieno di spunti (ho fatto la bellezza di 73 sottolineature) e che è, giustamente , una pietra miliare della moderna letteratura sull’alimentazione.