Mangiare come Dio comanda
Mi aspettavo un libro che parlasse delle varie regole alimentari delle religioni, un libro didascalico, tecnico.
Infatti la nostra dieta deriva dalla parola greca diaita, che significa «forma di vita», o addirittura «vita» tout court. Quel che oggi si riassume in un’espressione come «stile di vita»
Mi sono trovato nel Kindle questo Mangiare come Dio comanda, dove Elisabetta Moro e Marino Niola fuggono dall’elenco di regole e provano (spoiler: con successo) invece ad unire i puntini, a trovare punti comuni tra le varie pratiche, mostrando come ci siano degli archetipi comuni che poi ogni religione declina e adatta alle sue specificità.
Nel farlo, traccia anche un lungo percorso di cosa è il rapporto tra Uomo e Dio. Non è un libro di cucina, ma più di teologia.
In realtà la capacità di mortificazione del corpo dei rinuncianti ha esattamente lo scopo di essere mostrata. Tant’è che molti li accusano di trasformare la loro vita in un theama, in uno spettacolo senza soluzione di continuità. Una body performance la cui conclusione mortale è il vero happy end dell’esistenza di questi esseri. Per loro, infatti, la vita terrena è una breve candela che provoca una bruciatura insignificante nella superficie infinita e compatta dell’eternità.
Fondamentale è la questione storico-geografica: alla fine, seppure in momenti diversi, tre delle religioni dominanti si sono evolute sulle sponde del Mediterraneo. E in tutte e tre quindi l’olivo, l’oliva e il suo prezioso frutto, l’olio sono simboli importanti. Fondamentali sono anche altre radici comuni: la possibilità offerta dal fuoco, il ciclo della natura, il rifiuto della voracità. Si vede come Dio è l’immagine, molto sfaccettata, dei popoli che lo adorano e delle diverse prospettive che questi portano al tavolo.
L’uomo è ciò che mangia, ma Dio non è da meno. Perché da che mondo è mondo attraverso le scelte alimentari ogni popolo costruisce simultaneamente l’immagine di sé e quella della divinità.
E proprio nella direzione del sentire comune, della vicinanza, dell’essere meno diversi di quanto si pensa, anche quando si allarga lo sguardo nelle pagine finali alle religioni dell’Asia più lontana, questo libro trova la sua ragion d’essere e la sua piacevolezza.
Nella canzone Pesce veloce del Baltico Paolo Conte fa del baccalà servito con la polenta l’emblema di una cucina popolare, povera e umile, che nei ristoranti gourmet viene riproposta con nomi altisonanti e pretenziosi come «pesce veloce del Baltico» e «torta di mais».
Scritto in maniera molto gradevole, molto ricco di citazioni e riferimenti ma mai pesante; decisamente consigliato.
Le regole e le prescrizioni si possono leggere da Wikipedia.