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Half-Life: 25 anni dopo

Cosa vuoi dire, a 25 anni abbondanti dal lancio, di Half-Life?

Che te lo sei rigiocato.

Lo avevi in libreria su Steam (e lo hanno comunque omaggiato a tutti quelli con un account) Complice sia il Podcast di Outcast sul documentario del 25esimo con Quedex e Delu sia la tua disintossicazione da Magic Arena, ci hai fatto un giro.

Beh, 12 ore (meno una, poi dico) di puro divertimento. Ancora oggi, anche con un motore che mostra i suoi anni (ma molto meno di quanto si pensi), è pieno di momenti che sono puro godimento videoludico.

Zero complicazioni, zero side quest, zero crafting, zero collezionabili. Ma pura emozione, puro gameplay emergente (non c’è una riga di testo e il tutorial è sostanzialmente un viaggio in metropolitana), pura adrenalina (i crab, allora come ora, sono ancora uno dei nemici che più vi farà saltare sulla sedia). La soddisfazione nel veder bruciare l’alienone che esce dal buco, il ricordare come erano certi nemici, la paura nel sentire un suono gutturale e giocare con la torcia per capire da dove viene.

La dimostrazione che il videogioco è un’arte, come la musica, come la letteratura, è che una cosa di venticinque anni fa funziona ancora perfettamente. Come un disco dei Beatles o un libro della Recherche, certi linguaggi sono universali.

Dicevamo del “meno una”. In effetti un problema nel gioco c’è, ed è l’ora finale. Tanto coerente è la parte a Black Mesa, tanto appiccicata e tirata via è la parte finale sul pianeta alieno di Xen. Troppo platform, troppo basata sul pixel perfect (che in questo ambiente 3D non ha senso). Non c’entra niente, ma lo dicono anche gli autori stessi nel documentario. Documentario che vi consiglio come companion all’esperienza, pieno di dettagli tecnici e anedoti, ma anche solo per vedere cosa è diventato Gabe Newell, oramai assurto definitivamente al livello di santone hippy.