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L'era della suscettibilità

Difficile scrivere di questo “L’era della suscettibilità”, pamphlet di Guia Soncini.

Difficile perché da una parte l’autrice scrive troppo bene, ha quel modo di scrivere persuasivo, che ti porta ad aderire entusiasticamente. Siamo dalle parti di Richler, quei periodi anche lunghi, complessi, che come il toboga ti portano per mano in tutto il ragionamento e alla fine annuisci, sorridendo, contento e convinto di aver capito. E anche qui ci sono le citazioni di Yeats.

Dall’altra ha appunto le opinioni, i ragionamenti, le posizioni, che non sono certo morbidi e accomodanti. Opinioni che, passato l’effetto delle buone parole, se fai un passo indietro e le riguardi ti accorgi che forse tutto quell’accordo non c’è, che da “non può che essere così” passi a un “certo, ma…” per controbattere a una posizione eccessiva, a un passaggio stilisticamente funambolico che poi, a freddo, si rivela non condivisibile.

(Ricky Gervais – comico inglese che si diletta a far offendere i commentatori social, ma su scala abbastanza industriale da fare poi di quei tamponamenti a catena decine di minuti di monologhi che vende a Netflix – ha dato la più efficace descrizione di Twitter, ma un po’ di tutta l’internet: «È come leggere tutte le scritte su tutte le pareti di tutti i cessi pubblici»).

Intendiamoci, il 90% delle cose e dei pensieri scritti sono sacrosanti: non avere altri problemi ci porta a doverceli inventare, e quale modo migliore per farlo se non mettere in mezzo a qualsiasi cosa un totalizzante “essere se stessi” e reagire di conseguenza a qualsiasi critica, osservazione, commento. Diventando teatrali, pur di proteggere con la permalosità la propria immagine di sé, la sua integrità, l’assenza di dubbio.

I passaggi sul sentirsi vittime di tutto, di messaggi non indirizzati, di volersi vedere al centro di ogni dibattito, di ogni opinione, di ergersi addirittura a vittime conto terzi, difendendo con ferocia altri da sé, che magari poi non si sentono neanche offesi, sono tutti condivisibili.

Quando poi a questo atteggiamento abbiniamo strumenti come la comunicazione di massa (prima) o i social network (ora), il risultato è assicurato, con attenzione garantita e, nei giusti casi, esposizione globale (il capitoletto su Diana Spencer, iniziatrice del vittimismo come ragion d’essere, ha la robustezza di una dimostrazione matematica).

Una volta andavamo al cinema, accendevamo la televisione, leggevamo qualcosa, e non eravamo così mitomani da credere che il regista, il conduttore, lo scrittore ce l’avessero proprio con noi.

Fondamentali per ogni dialogo maturo i concetti per cui opere e uomini sono cose diverse e si valutano con criteri diversi, che il contesto è il primo elemento necessario a decodificare un messaggio, che, e qui si va dalle parti di D.F. Wallace, non dobbiamo pensare di essere sempre al centro del pensiero di tutti quelli che abbiamo intorno, di fronte o dall’altra parte dello schermo.

Eppure, eppure, rimangono alcuni punti in cui, ripensandoci a mente fredda, sembra proprio che l’autrice si sia fatta prendere la mano dal suo stesso stile, che abbia un po’ spinto l’opinione al di là del condivisibile. E si rimane con il dubbio se, a volte, sia stato fatto proprio apposta, senza crederci fino in fondo ma per dire qualcosa di forte e, con strumenti diversi, ottenere l’attenzione.

Rimane comunque una lettura consigliata e godibilissima per chiunque abbia interazioni sociali, e in particolare chi frequenti i social network. E poi è scritto da Dio.

Ai tutti contro uno si tifa per l’uno, pure se l’uno è il peggior personaggio di sempre.