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Le finte bionde

Questo libretto è abbastanza strano. Uno inizia a leggerlo e vede una critica, abbastanza ironica ma realistica, di un certo tipo di società allo champagne, la società delle “Finte bionde”, che da appunto il titolo. Una società, o meglio un gruppo sociale, dove essere è molto meno importante che apparire, dove chi conosci è molto più importante di cosa conosci e via così. Per narrare questo gruppo, vengono raccontati una serie di aneddoti da far accapponare la pelle per ignoranza e gradasseria, che seppur ripetitivi sono scorrevoli. Anche il tono con cui sono raccontati questi aneddoti è molto distinto e fa ricorso a una serie di citazioni e alla conoscenza di personaggi della cultura e del cinema italiano.

Tutto questo potrebbe farlo sembrare una sorta di racconto snob del tipo “ma come siamo messi signora mia”; sarebbe un libro bruttarello e banale, ma tutto sommato niente di che.

Lo sconcerto vero sorge quando uno va a leggere chi è lo snob autore di questo libro: uno dei fratelli Vanzina ovvero qualcuno che negli anni la “finta bionda” ha contribuito a crearla e che ne fa tuttora il target di riferimento del proprio lavoro artistico.

Chiariamo subito, io non ho niente contro i fratelli Vanzina, anzi, apprezzo molti dei loro film (ma non ne faccio il mio programma di filosofia morale) ma mi ha colpito molto questa dicotomia tra cosa si pensa del proprio pubblico (così come scritto nel libro) e lo sforzo che si fa per ingraziarselo (sul grande schermo); mi sembra un po’ uno sputare nel piatto dove si è mangiato e si mangerà ancora, un’inutile offesa verso il proprio pubblico.

Dalla lettura, alla fine, uno si porta via una netta sensazione di vergogna, come se l’autore volesse dimostrare che quello che fa, invece che farlo perché gli viene bene e gli dà la pagnotta e chissenefrega dell’impegno sociale, lo faccia con una specie di secondo fine pedagogico-sociale, del tipo “io ti metto davanti ai tuoi errori e tu devi capire che sto parlando con te”.